martedì 29 novembre 2011

Sovranità nazionale e globalizzazione

di Spartaco Puttini per Marx21.it
Nulla è più prezioso dell’indipendenza e della libertà” [Ho Chi Minh]

In ultima analisi, la lotta nazionale è una questione di lotta di classe” [Mao Tse-Tung]

La sovranità [1] nazionale consiste nell’indipendenza non solamente formale di uno Stato che, non riconoscendo alcuna autorità al di sopra di sé, gode della possibilità di decidere il proprio destino.
In teoria tutti gli Stati godono degli stessi diritti e delle prerogative della sovranità. Concretamente però la differenza di “potere” che corre tra essi fa sì che la sovranità delle nazioni più deboli sia spesso menomata o calpestata dalle Grandi Potenze. Nonostante le pregevoli intenzioni, le nobili idee e gli stessi trattati l’unico metro che conta nelle relazioni internazionali è il potere.

Ciò ha assunto particolare evidenza con l’età dell’imperialismo, quando i paesi a capitalismo avanzato si sono spartiti il resto del mondo. Anche a seguito della decolonizzazione occorre notare che l’accesso all’indipendenza politica da parte delle nazioni vittime del colonialismo è stata, nella maggior parte dei casi, limitata solamente alla sfera formale, restando quei popoli legati alle pesanti catene della dependencia economica nei confronti dell’Occidente.

Ai nostri giorni il tentativo degli Stati Uniti di imporre al resto del mondo il proprio ordine unipolare rende particolarmente acuta la questione nazionale, che è la questione della difesa della sovranità nazionale e dell’indipendenza (non solo formale) del proprio paese e degli altri paesi in lotta contro l’imperialismo. La questione nazionale è la questione cruciale della nostra epoca.

- Le armi dell’imperialismo e la questione nazionale
Occorre tenere presente che qualsiasi sistema è la risultante delle interazioni tra i soggetti che lo compongono e queste interazioni sono regolate dai rispettivi rapporti di forza. Pertanto chi è al centro del sistema modella la periferia del sistema a seconda dei propri esclusivi interessi e non in ragione di presunte soluzioni “migliori”, nel senso neutrale del termine. Le Potenze egemoniche tendono ad inseguire i propri esclusivi obiettivi cercando di piegare la resistenza delle forze che si oppongono loro.

Nella vita internazionale a volte i rapporti di forza vengono regolati sul rude terreno dello scontro militare. Ma il più delle volte non è così. A volte basta ricorrere alla minaccia dell’uso della forza per costringere i paesi più deboli a piegarsi. Altre volte le Potenze “centrali” del sistema giocano altre carte: dal condizionamento economico, a quello politico tramite vere e proprie quinte colonne opportunamente preparate; oppure sfruttando le linee di frattura presenti all’interno della società presa di mira per destabilizzarla e costringerla alla resa; oppure ancora riescono ad ottenere la “subordinazione volontaria” grazie ad una vasta ed efficace campagna mediatica e culturale che convince l’élite e secondariamente l’opinione pubblica del paese che deve essere fagocitato della giustezza delle politiche “suggerite”.

Come ha notato il geopolitico argentino Marcelo Gullo, all’interno della nazione sulla quale viene esercitata la pressione da parte del centro imperialista si assiste sempre al contrapporsi tra due fazioni. Da un lato i così detti sostenitori del “realismo” collaborazionista, pronti ad accettare l’imposizione dell’egemone visto che i rapporti di forza “costringono” alla capitolazione. Queste tendenze finiscono con l’affidarsi alla buona volontà dell’egemone stesso, rinunciando a fette sostanziali di sovranità nazionale. Dall’altro lato si collocano i sostenitori di un realismo “liberazionista”, che rifiutano di cedere ai ricatti del centro egemonico proprio in virtù delle conseguenze inaccettabili che implicherebbe la cessione della sovranità e che si adoperano per impostare un insieme di politiche capaci di mobilitare le risorse del proprio paese per preservarne l’indipendenza [2].

E’ importante sottolineare che tutti i paesi che in passato sono riusciti a sfuggire da una condizione di sudditanza o comunque da una posizione periferica nel sistema hanno dovuto, giocoforza, basare la loro politica di sviluppo sull’interventismo statale per sfuggire ai tentacoli delle Potenze che occupavano il centro del sistema, le quali disponevano ovviamente della primazia economica e finanziaria. (Questo a prescindere dal sistema economico dei paesi a cui è riuscito il tentativo di emancipazione, fosse esso il modello capitalistico scelto da Germania e Giappone alla fine dell’Ottocento o quello socialista-pianificato scelto dall’Unione Sovietica o, ancora, quello socialista di mercato scelto dalla Cina).

Il potere infatti, non è solo il mezzo con cui le Potenze imperialiste cercano di schiacciare i paesi più deboli ma è anche il mezzo di cui i paesi più deboli devono cercare di dotarsi per non soccombere davanti agli aggressori.

- La crisi dello Stato nazionale è solo un mito
Ma è ancora possibile cercare una strada di sviluppo autonomo dalle forze dominanti del sistema internazionale nell’attuale contesto della globalizzazione?
Nel corso degli ultimi due decenni è stato affermato con forza che l’attuale fase della globalizzazione avrebbe posto in crisi irreversibile lo Stato nazionale moderno, svuotandolo di potere e rendendo superflue le sue prerogative. Questa affermazione ha conosciuto una grande fortuna. In realtà le cose non stanno affatto così.

La crescente interdipendenza tra le nazioni non conduce affatto alla scomparsa o alla crisi dello Stato nazionale in quanto tale e non ne mette in discussione automaticamente le prerogative (a partire dalla sovranità). Come sempre è stato nella storia vi sono entità statali che collassano e che si dissolvono. Ma questo avviene sotto il peso dell’azione di altre Potenze più forti. Le prerogative degli Stati nazionali sono pertanto ancora valide. Le stesse istituzioni finanziarie internazionali (FMI e Banca mondiale) non sono altro che i tentacoli della Potenza egemone (gli Usa) e, in subordine, dei suoi più stretti alleati (la Gran Bretagna) [3].

Basti pensare alla forza propulsiva che hanno assunto le economie dei paesi emergenti in gran parte proprio grazie al rifiuto dei disastrosi piani del FMI e all’adozione di politiche economiche dirigiste, che attribuiscono un grande ruolo all’intervento qualificato dello Stato in economia. L’esempio di Venezuela, Argentina e quello di altri paesi latinoamericani è particolarmente eloquente. Sempre in Sudamerica possiamo notare come il processo di integrazione del continente, o di alcune sue aree, tramite l’Unasur o l’Alba, non comporti assolutamente una cessione di sovranità da parte degli Stati membri. Anzi, queste organizzazioni, proprio perché rappresentano un contrappeso alle forze mondializzanti dell’Anglo-America, garantiscono la difesa della sovranità nazionale da processi di svuotamento e di imposizione di un neocolonialismo post-moderno.

L’avere accettato supinamente il luogo comune della inevitabile crisi dello Stato-nazione e quindi della naturale cessione della sovranità nazionale è stato un grave errore, specie da parte di settori della sinistra occidentale che hanno così perso la bussola trovandosi drammaticamente disarmati ed in balia dell’imperialismo (la cui esistenza avevano per ironia della storia rimosso).

- Le varie facce della questione nazionale
La questione nazionale può essere declinata in vari modi. Dal punto di vista più propriamente politico concerne la difesa dell’indipendenza e implica l’adozione di una politica estera in linea con i propri interessi nazionali. E’ in base ad essi che vanno stabiliti paritetici legami di partenariato con i paesi vicini. Per l’Italia si tratta di essere autonoma dalle scelte atlantiche, di non lasciarsi trascinare in conflitti d’aggressione, di uscire dalla Nato, strumento col quale gli Usa controllano l’Europa. Riveste particolare importanza stabilire un equo rapporto di partenariato con i paesi arabo-islamici del Mediterraneo e con tutte le realtà in lotta contro l’imperialismo. Diventa vitale incaricarsi della costruzione di un’altra Europa, diversa dalla Ue e oltre la Ue (cioè aperta alla Russia e all’Eurasia).

Dal punto di vista economico implica il rifiuto dei fallimentari paradigmi neoliberisti che hanno impoverito la nazione. La coerente adozione della questione nazionale suggerisce di basare lo sviluppo del paese su un qualificato intervento pubblico in economia. Contro i disordini e gli sprechi insiti nell’anarchia della produzione tipica del capitalismo e contro il nanismo che impedisce la ricerca e l’innovazione tecnologica occorre rilanciare la programmazione e la proprietà statale dei settori strategici (che se lasciati in mano privata possono rappresentare un’ipoteca pericolosa per lo sviluppo del paese e per lo stesso esercizio della democrazia). Per controllare le leve dell’economia ed orientare lo sviluppo è necessario promuovere la nazionalizzazione del settore creditizio (non delle sue perdite). Anche lottare contro l’evasione dei ricchi e dei privilegiati per ottenere una più equa ripartizione del carico fiscale è in fondo un aspetto della questione nazionale. Sia perché consente allo Stato di recuperare le risorse di cui abbisogna per impostare le politiche al servizio della comunità nazionale, sia perché colpendo i ceti privilegiati permette di salvaguardare il potere d’acquisto delle masse popolari.

- Classe, Sovranità nazionale e democrazia
Se uno Stato non è libero di scegliere il proprio destino e diviene semplicemente l’oggetto del gioco altrui significa che il popolo di quello Stato non potrà mai decidere davvero nulla di rilevante in merito alla conduzione dei suoi affari, perché vi sarà sempre un’autorità esterna a dettargli l’agenda. La sovranità nazionale, l’indipendenza sostanziale della propria patria, è condizione necessaria anche se non sufficiente dello sviluppo della democrazia e del protagonismo delle classi popolari, che sono la nazione.

Ne è stato ben cosciente il movimento comunista internazionale nel corso del Novecento, come si evince dall’impegno profuso per sostenere le lotte di liberazione dei popoli contro l’imperialismo. E’ in questo contesto che Ho Chi Minh sostiene che “nulla è più prezioso dell’indipendenza e della libertà”. Ed è sempre in questo contesto che Mao, durante la guerra di liberazione dall’occupante giapponese, sostiene che “in ultima analisi la lotta nazionale è una questione di classe”. Ma basti pensare al fenomeno della Resistenza in Europa (e in Italia) durante il secondo conflitto mondiale. La stessa svolta di Salerno diviene sinceramente incomprensibile se considerata al di fuori della rilevanza assunta all’epoca dalla questione nazionale.

Se un paese non è sovrano non può ovviamente darsi istituzioni democratiche, per limitativo che possa essere il significato che si attribuisce al termine “democrazia” o per limitata che sia la sua declinazione. L’ingerenza e la limitazione della sovranità implica il venir meno della possibilità di un corretto esercizio democratico. Quanto meno esso diviene un inutile orpello.
Non a caso nelle forme storicamente conosciute di cessione della sovranità la democrazia (anche se considerata nel senso assai limitato di consultazione elettorale) non svolge alcun ruolo dirimente e viene accantonata, sospesa o svuotata a seconda delle necessità del vero “sovrano”. Tale deriva è oggi evidentissima nel processo di costruzione europea.

- La crisi italiana
Nell’Ue ci si è spinti certamente avanti nel delegare a commissioni sovranazionali molte delle prerogative dello Stato sovrano. Questo ha posto in posizioni chiave una burocrazia tecnocratica legata a doppio filo alla finanza transnazionale anglo-americana ed ai centri atlantici ed ora questa burocrazia gode di competenze che sfuggono ad una gestione democratica. L’europarlamento non è altro che un’obesa sovrastruttura priva di potere reale ed attraversata dalle lobbies. La presente crisi che ha investito l’eurozona dimostra la debolezza di una moneta sovranazionale sulla quale non si può esercitare nessuna azione rilevante da parte degli Stati membri. Questo limite è oggi sotto gli occhi di tutti.

L’affondo della finanza anglo-americana ai paesi deboli dell’eurozona rappresenta una manovra concertata per affossare l’Euro e tenere in piedi il dollaro come unica moneta di riserva internazionale al fine di puntellare la barcollante egemonia americana. Si tratta di un complotto?
Assolutamente no, si tratta di politica. Ognuno ha i suoi interessi. Tutto dipende se si riesce a capire quali sono.

La crisi dell’Italia potrebbe in prospettiva far deflagrare la UE, le cui debolezze strutturali sono messe a nudo a partire dalla radicale differenza di interessi tra il nucleo franco-tedesco e i paesi periferici o semi-periferici dell’Unione. L’atteggiamento tedesco si spiega probabilmente col fatto che il grande capitale teutonico ha deciso, da sempre, di considerare il resto dell’Europa come una propria semicolonia economica. (Ciò che non è riuscito ai panzer è riuscito in parte alla Bundesbank?). Pare in parte orientato ad arraffare tutto ciò che può prima di convertirsi alla possibile dissoluzione della Ue in un grande mercato transatlantico integrato. Il progetto sarebbe sostanzialmente un’ALCA rivolta all’Europa. Quella stessa Alca che l’America meridionale seppe respingere dopo il tracollo argentino e che ora potrebbe attenderci al varco, in fondo a destra, se da questa crisi non ne usciremo in altro modo.

Per uscire dalla crisi la BCE e quell’impareggiabile collezionista di disastri economici che è il Fondo Monetario Internazionale ci chiedono di proseguire ancor più celermente sulla strada che ci ha portato sull’orlo del baratro. Perché?

Perché il loro obiettivo, ed in questo il capitale finanziario italiano e la Confindustria sono sostanzialmente convergenti con i poteri forti di Francoforte e d’oltreatlantico, è raggranellare tutto ciò che possono. Facendo soldi sulla speculazione nell’immediato, portando l’Italia a cedere parte delle sue rilevanti riserve di oro (le quarte al mondo) e a svendere le imprese a partecipazione statale (ENI, Finmeccanica) che tengono ancora in piedi il paese e che potrebbero rappresentare la base produttiva dalla quale ripartire per risalire la china. Infine spingendo per far applicare ancor più drasticamente le fallimentari ricette neoliberiste rifilateci in passato allo scopo di modellare un mercato del lavoro docile e schiacciato in fondo alla piramide della divisione internazionale del lavoro. Il tutto porterebbe l’Italia dalla crisi al declino.

L’uomo che è stato incaricato di presiedere con un governo tecnico di commissariamento antinazionale ed antidemocratico (non nella forma, ma nella sostanza), Monti, ha un profilo preciso: quello del tecnocrate cresciuto negli Usa appunto, membro di spicco della Trilateral, vicino al solito, immancabile, Brzezinski. Paiono inutili ulteriori presentazioni.

Ecco perché questa è una battaglia per la difesa dei diritti sociali, per lo sviluppo economico del paese ed è contemporaneamente una battaglia antimperialista, una battaglia per la difesa della sovranità nazionale.
Una corretta declinazione della questione nazionale in questa situazione concreta dovrebbe portare a sollevare seri dubbi sulla legittimità della pericolosa ingerenza della BCE nelle nostre faccende domestiche.

NOTE
1 Sovranità = “carattere assoluto e incondizionato di un potere non sottomesso ad alcuno altro e investito della più alta autorità”. Attributo essenziale dello Stato. In regime rappresentativo è attributo della nazione / del popolo, il quale legittima l’autorità degli organismi supremi dello Stato che esercitano il potere in suo nome. Si veda: Dizionario di storia e geopolitica del XX secolo; a cura di Serge Cordellier, Milano Mondadori, 2001

2 M. Gullo, La costruzione del potere : storia delle nazioni dalla prima globalizzazione all’imperialismo statunitense; Milano Vallecchi, 2010

3 Rimando in proposito a: M. Casadio, J. Petras, L. Vasapollo, Clash! Scontro tra Potenze: la realtà della globalizzazione; Milano Jaca Book, 2004. Si veda in particolar modo il seguente passaggio: “I difensori della tesi di un mondo senza nazioni […] non riescono a capire che le istituzioni finanziarie internazionali non sono una nuova e più alta forma di governo al di là dello Stato-nazione, non capiscono che esse sono istituzioni che derivano il proprio potere dagli Stati imperiali”; p.32

Fonte: Marx XXI

Gli anticapitalisti, le nazioni e l’internazionalismo

di Stefano D’Andrea

E’ stimolante rileggere il Manifesto del Partito Comunista a piccole dosi. Brani isolati. Pochi pensieri. Per lo più stringati ragionamenti su innumerevoli concetti importanti della vita, della politica, della società.

Alcuni brani appaiono totalmente condivisibili. Il giudizio di valore o il giudizio storico è rimasto identico. Altri brani necessitano di un semplice adeguamento linguistico. In particolare i termini “borghese” e “borghesia” non sono adatti a descrivere alcun fenomeno del mondo moderno, perché, per molti versi, la borghesia alla quale Marx ed Engels alludevano non esiste più. Anche il termine proletariato, con riguardo alle realtà politiche dell’occidente sviluppato, è poco calzante. Non perché non esistano realtà fenomeniche definibili mediante tale termine. Bensì perché esso designa una parte del tutto, che è costituito dai lavoratori – anche autonomi, oltre che subordinati- anzi, più precisamente, dagli spiriti anticapitalistici. Molti lavoratori, infatti, non sono minimamente contrari alla suprema regola della valorizzazione del capitale. Basta però sostituire il termine che appare indebolito con un termine di uso più comune (per esempio, secondo il mio avviso,“proletariato” con “partito anticapitalista”) ed ecco che la frase ha un significato chiaro e sovente pienamente condivisibile. Altri brani non ci trovano d’accordo e spesso non ci hanno mai persuaso. Con riguardo a questi brani è piacevole fissare il nostro pensiero prendendo le distanze da due giganti. Lo stile del Manifesto è limpido: obbliga a chiarire il dissenso e impegna ad adottare uno stile altrettanto cristallino.

C’è un brano del Manifesto del Partito Comunista appositamente dedicato al concetto di nazione:

“Si è inoltre rimproverato ai comunisti di voler liquidare la patria, la nazionalità.
I lavoratori non hanno patria. Non si può togliere loro ciò che non hanno. Dovendo anzitutto conquistare il potere politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, il proletariato resta ancora nazionale, ma per nulla affatto nel senso in cui lo è la borghesia.
Le divisioni e gli antagonismi nazionali fra i popoli tendono sempre più a scomparire già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà del commercio, con il mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e delle condizioni di vita che ne derivano.
Il potere proletario li farà scomparire ancora di più. L’azione comune almeno dei paesi più civilizzati è una delle prime condizioni della sua liberazione.
In tanto in quanto viene eliminato lo sfruttamento del singolo individuo da parte di un altro, svanisce anche lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra.
Con l’antagonismo delle classi all’interno delle nazioni cade la reciproca ostilità fra le nazioni”.

Il brano stupisce e spinge a chiedere: quanti comunisti lo hanno letto con attenzione? Esso contiene affermazioni sistematicamente negate da moltissimi comunisti delle ultime due generazioni.

Intanto Marx ed Engels stanno difendendo i comunisti dall’accusa “di voler liquidare la patria, la nazionalità”. Essi non scrivono “è vero”, precisando poi in che senso l’accusa è fondata, come invece fanno con riguardo ad altre accuse rivolte ai comunisti. Al contrario, replicano: non è vero che i comunisti vogliono liquidare la patria, la nazionalità.

Paradossalmente, nella forma dello slogan (“il proletariato non ha nazione”), ha avuto successo l’affermazione secondo la quale “I lavoratori non hanno patria”. Ma essa o è smentita dal contesto linguistico – direi da tutte le altre proposizioni – ; oppure, più esattamente, va intesa in senso molto lato; è un’iperbole che vuole contestare l’idea di nazione delle classi dominanti, non l’idea di nazione in sé. Infatti, quando gli autori iniziano l’analisi, assegnano al concetto di nazione un ruolo imprescindibile e fondativo: “Dovendo anzitutto conquistare il potere politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, il proletariato resta ancora nazionale, ma per nulla affatto nel senso in cui lo è la borghesia”.

I comunisti, dunque, sono comunisti di una nazione: vogliono che la nazione sia comunista. Le nazioni sono perenni e ci saranno anche quando i comunisti avranno preso il potere. Sono “Le divisioni e gli antagonismi nazionali fra i popoli” che, secondo Marx ed Engels, tendono a scomparire; non le nazioni. Già lo sviluppo del mercato mondiale tenderebbe a questo risultato – e qui non direi che il carattere futurologico del pensiero Marxiano abbia colto nel segno -; “Il potere proletario li farà scomparire ancora di più”. Sarebbero scomparsi gli antagonismi nazionali. Non le nazioni: “svanisce anche lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra”. Svanisce lo sfruttamento di una nazione sull’altra. Non le nazioni, che anzi, nell’ottica del Manifesto, permangono.

Dunque i comunisti (oggi direi più semplicemente i membri del partito anticapitalista) sono e non possono che essere nazionali, perché aspirano a conquistare il potere politico e ad elevarsi a classe nazionale – altrimenti il tentativo fallirebbe ben presto. L’organizzazione politica dei comunisti, secondo Marx ed Engels, non sarebbe stata aggressiva nei confronti delle altre nazioni. Perciò, il mondo ideale, immaginando che i comunisti avessero preso il potere in ogni nazione – si fossero elevati ovunque a classe nazionale –, sarebbe stato un mondo di nazioni pacifiche.


E l’internazionalismo che cos’è? E’ “l’azione comune” dei proletari delle varie nazioni, la quale “è una delle prime condizioni” della liberazione del proletariato (oggi degli anticapitalisti). Nel Manifesto del Partito Comunista non vi è un progetto paragonabile alla Ummah che gli islamisti internazionalisti vorrebbero ricostruire. Questi ultimi sono talvolta contrari agli stati nazionali, perché quegli stati – quei confini, quei regnanti e quelle nazioni – sono stati imposti dalle nazioni imperialistiche e colonialistiche straniere. Dunque gli islamisti internazionalisti, oltre a voler ricostituire il califfato (l’unità politica superiore) che copra tutti i terreni dell’islam (in senso stretto), vorrebbero o sarebbero disposti anche a modificare i confini delle unità politiche derivate o secondarie. Niente di tutto ciò emerge dal brano del Manifesto del Partito Comunista appositamente dedicato alle nazioni. Marx ed Engels non pensano ad un super stato (uno stato mondiale o universale) comunista; e non contestano le ragioni e le lotte in forza delle quali erano sorti gli stati nazionali europei – d’altra parte, Engels aveva combattuto sulle barricate per la creazione della Germania. “L’azione comune” è la solidarietà internazionale; solidarietà di pensiero e di azione. Allora perché i proletari di ogni nazione conquistassero il potere nella loro nazione; e oggi perché il partiti anticapitalisti conquistino il potere nelle rispettive nazioni.

Quale deve essere oggi la linea politica del partito anticapitalista rispetto all’idea di nazione? Credo che debba essere, nelle linee essenziali, quella tracciata nel Manifesto del Partito Comunista, la quale, paradossalmente, non ha nulla a che vedere con quella seguita, generalmente, dai comunisti delle ultime due generazioni.

Dunque l’ideale è che gli anticapitalisti si facciano classe nazionale e che proliferino nazioni anticapitaliste. L’avversione dei comunisti delle ultime due generazioni per il concetto di nazione è ingenua, frutto di posizioni irrealistiche, contraria alla storia dei comunisti (quando erano veramente comunisti) e generatrice di un universalismo falso che non consente la critica della globalizzazione. Un universalismo che non preme per la nascita di una forte volontà di ridurre gli scambi internazionali (i quali, sovente, hanno come unica ragion d’essere la valorizzazione del capitale). Non muove dal riconoscimento, ad ogni partito anticapitalistico, della piena dignità e legittimazione a perseguire e a edificare una società anticapitalistica singolare, particolare, originale e unica. Marx ed Engels avevano intuito, infatti, che sono i detentori (e oggi anche i gestori) dei grandi capitali a voler distruggere le nazioni e prima ancora ad avere interesse a distruggerle. Si legge in altro luogo del manifesto:

Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni.


Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale”.

E’ la suprema regola secondo la quale occorre massimizzare la valorizzazione del capitale ad essere contraria alle nazioni, nel senso che i titolari e i gestori di grandi o medi capitali perseguono l’omogeneità dei consumatori, l’apertura e la scomparsa dei confini, la libertà di circolazione delle merci, del lavoro e dei capitali. Gli appartenenti ad una nazione che hanno accumulato un certo capitale, nonché gli appartenenti a quella medesima nazione che si trovino a gestire grandi capitali, hanno interesse a “investire” o semplicemente ad acquistare azioni e in genere titoli ovunque reputino che gli investimenti o i titoli siano redditizi. Il capitale risparmiato da un imprenditore di una nazione con cento anni di svolgimento di un’attività di impresa e quindi con l’apporto di lavoratori di una nazione (italiani per esempio) durante cento anni, a un certo punto è impiegato per acquistare materie prime da soggetti dello stato A, per produrre nello stato B e vendere nello stato C, anche se né A, né B e né C sono gli stati originari nei quali è stato accumulato quel capitale. Il capitalismo deve funzionare. E per funzionare non deve trovare attriti: giuridici; religiosi; posti da secolari tradizioni; derivanti dalla eterogeneità dei consumatori. Il capitale ha la vocazione per lo spazio planetario e lo vuole senza frontiere.

Siamo dinanzi ad un apparente paradosso. Il capitale può riuscire a massimizzare la propria valorizzazione soltanto abbattendo e distruggendo sempre più gli Stati Nazione; o comunque internazionalizzandosi rallenta la caduta tendenziale del tasso di profitto. Gli anticapitalisti – che è bene siano uniti nonostante tutte le possibili diversità di obiettivi (in realtà gli anticapitalismi si differenziano per la diversità dei valori o beni che in via prioritaria si vogliono sottrarre alla logica necrofila del capitale) – “devono farsi nazione” (come scrivevano Marx ed Engels con riguardo ai Comunisti); devono conquistare il potere nelle nazioni e cominciare così o a sottrarre al capitale, in uno o più luoghi della terra, il dominio sulla nuda vita degli uomini; o, comunque, a ridurre l’ambito e le forme di quel dominio. Per il capitale le nazioni sono un ostacolo. Per gli oppositori del capitalismo – ossia della suprema regola secondo la quale lo scopo dell’attività sociale dell’umanità deve essere quello di massimizzare la valorizzazione del capitale – l’edificazione di una nazione anticapitalistica è l’obiettivo.

Se oggi l’anticapitalismo, in tutte le sue forme, nuove e vecchie (compresa quella, “relativa” ma significativa, della socialdemocrazia) è così debole, ciò è dovuto allo stato oggettivo in cui sono state ridotte molte nazioni, ma anche e soprattutto alla irragionevolezza degli anticapitalisti, i quali, osteggiando il concetto di nazione, sono destinati a restare nello stato velleitario delle declamazioni fumose, posto che il loro obiettivo dovrebbe essere quello di impegnarsi per costruire nazioni anticapitaliste. E va da sé che, se è giusto solidarizzare con anticapitalisti di altre nazioni ed eventualmente partecipare a una o altra battaglia reputata importante, è pur sempre ovvio che, per mille ragioni, gran parte dell’impegno di ogni anticapitalista dovrebbe essere indirizzato ad indebolire, all’interno della propria nazione, la forza della regola sulla quale affondano pressoché tutte le costituzioni nazionali: il capitale si deve valorizzare.

Fonte: Appello al popolo

DIBATTITO FIAT, E’ TEMPO DI UN’ALLEANZA PER IL LAVORO – PER L’AZIENDA I LAVORATORI E LA CITTA’ SONO VARIABILI INDIPENDENTI DAL PIANO INDUSTRIALE

Il Consiglio comunale aperto sul caso Fiat rende merito alla responsabilità delle istituzioni pubbliche che vogliono impegnarsi sulle prospettive di sviluppo del proprio territorio e che devono, in momenti sempre più difficili, rappresentare le insicurezze verso il futuro e il disagio attuale e concreto delle proprie popolazioni.

Non si può riconoscere altrettanta responsabilità alla Fiat che, nonostante l’accezione Torino del proprio acronimo, si è volutamente e assertivamente sottratta ad ogni rassicurazione e a ogni anticipazione delle previsioni del proprio piano industriale.

Come Marchionne ha tenuto a precisare più volte che Fabbrica Italia non è un contratto con il Paese, ma un piano dell’azienda quindi non concertabile con il sistema dei poteri pubblici, così oggi il rappresentante delle relazioni esterne Dr. Rebaudengo ha sottolineato che la presenza al dibattito è solamente atto di irripetibile cortesia.

Le prospettive imprenditoriali, quindi, sono state illustrate certo come dipendenti dai processi di finanziarizzazione e globalizzazione, certo come correlati con il clima delle relazioni sindacali, ma altrettanto indifferenti rispetto alle aspettative di coesione sociale del nostro territorio: l’unica variabile indipendente per Fiat risulta proprio il futuro dei lavoratori e della città e della regione in cui non solo l’impresa è nata ed è cresciuta, ma da cui ha ricevuto molto per il lavoro dei propri dipendenti e per le facilitazioni e agevolazioni consentite dagli enti locali.

Paradossalmente le tradizionali politiche di sostegno e di accompagnamento che le istituzioni pubbliche attivano per l’occupazione e per gli aiuti alle imprese, anche ai fini di scongiurare delocalizzazioni, non si sono potute delineare nell’incontro odierno in conseguenza dell’atteggiamento da “mani libere” che Fiat ha premesso.

Sarà probabilmente più una questione di stile – esplicitamente insofferente verso l’autorità delle assemblee elettive – che una reale indisponibilità a discuterne, stanti invece i precedenti, buon ultimo TNE e l’area Mirafiori, cui invece Fiat ha attinto a piene mani.

E’ evidente ormai che le istituzioni non possono illudersi di trovare le forme migliori (suadenti? diplomatiche?) per cercare un dialogo cui l’interlocutore vuole sottrarsi, fintanto che gli converrà.

E’ indispensabile uscire da questa solitudine, ora delle organizzazioni sindacali ora delle istituzioni locali, che alternativamente o congiuntamente chiedono a Fiat di rispettare gli accordi, per aprire una stagione di alleanze: il rischio dei lavoratori Fiat non è solo delle loro famiglie, ma si riverbera sui lavoratori dell’indotto, si riflette sugli stili di vita e dei consumi quindi sull’economia della città.

Come un anno fa il 12 gennaio quando una calorosa fiaccolata attraversava la città e coinvolgeva tutti i cittadini è tempo di un alleanza per il lavoro, con le imprese, con le categorie economiche, con il sistema finanziario, con i soggetti sociali. E Fiat non potrà prescindervi.

Fonte: Eleonora Artesio

ISAP DI VOLPIANO, SOLIDARIETA’ AI LAVORATORI IN PRESIDIO PERMANENTE E INTERROGAZIONE IN CONSIGLIO REGIONALE

Venerdì scorso mi sono recata a portare la propria solidarietà e sostegno ai lavoratori della Isap di Volpiano in presidio permanente da diversi giorni per scongiurare la chiusura della propria fabbrica.

La Isap produce lame circolari per legno e per metalli dal 1930 e attualmente occupa 30 lavoratori. Nel 2009 il 60% dell’azienda è stato rilevato dalla Stark di Trivignano Udinese, specializzata nelle stesse produzioni.

Dopo questa acquisizione, l’azienda ha presentato un piano industriale che, come denunciano le organizzazioni sindacali, non si è mai concretizzato e, conseguentemente, la Isap ha subito un tracollo economico: un passivo di 1,7 milioni nel bilancio 2009 e una perdita di 300.000 nel 2010.

Attualmente molte commesse destinate alla Isap vengono dirottate verso altre aziende del Gruppo Stark e il 15 novembre 2011 la Stark ha comunicato l'intenzione di chiudere lo stabilimento di Volpiano a causa delle forti difficoltà finanziarie e di mercato.

Auspichiamo che dal tavolo di crisi richiesto dalle organizzazioni sindacali al Comune di Volpiano, alla Provincia e alla Regione, già attivato con un primo incontro che si è tenuto presso il Comune venerdì 25, possano scaturire azioni atte alla salvaguardia dell’occupazione richiamando l’azienda alle proprie responsabilità.

Abbiamo presentato un’interrogazione urgente in Consiglio Regionale per sapere quali strumenti l’amministrazione regionale intenda mettere in campo per scongiurare l’ennesima delocalizzazione produttiva, tutelare l’occupazione e per spronare ad un opportuno approfondimento delle reali dinamiche finanziarie che causerebbero la chiusura dell’azienda.

Torino, 28 Novembre 2011

Fonte: Eleonora Artesio

I.S.A.P Un affare “tagliente”

Questa è la storia di una famiglia, o meglio dire di 30 famiglie e di un operaio, o meglio dire di 30 operai che da 9 giorni hanno deciso di occupare lo stabilimento I.S.A.P di Volpiano in provincia di Torino.
Roba da pazzi direbbe qualcuno, 30 eroi direbbe qualcun altro, non so cosa rispondere direbbe il restante numero di persone che non sanno o che più semplicemente non vogliono sapere. Peggiore sarebbe sapere ma far finta di niente.

Questi 30 operai, padri di famiglia, professionisti riconosciuti nel mondo come i “guru” delle lame industriali (la I.S.A.P produce lame circolari per legno e metalli ed è produttiva e presente ai vertici del mercato dal 1930) non vogliono essere chiamati eroi, ne pazzi, ne in nessun altro modo.
Hanno voglia di gridare al mondo che sono stanchi, che nonostante gli acciacchi hanno ancora qualcosa da dare a questa società che mai come ora ha voltato loro le spalle e che mai nella storia, istituzionalmente parlando, li ha visti così protagonisti.
In primo piano, si. Sentono di dover essere loro a risolvere quei problemi che affliggono e incancreniscono la loro società, il loro collettivo e il marchio che per tantissimi anni ha visto la luce degli scaffali più alti del mercato mondiale.

Ma ora entriamo nello specifico, spieghiamo perchè questi UOMINI hanno incrociato le braccia e si sono seduti davanti al portone della loro azienda.
La I.S.A.P di Volpiano è stata, nel 2009, rilevata per il 60% da un'azienda gemella, ossia specializzata nelle stesse produzioni, chiamata STARK che è situata a Trivignano Udinese, provincia del capoluogo Friulano.
Da subito adotta un piano industriale apparentemente funzionale ma che ad oggi non si è mai concretizzato e di fatto nel 2011 arriva inevitabile un tracollo economico che porta l'I.S.A.P ad un preoccupante -1.700.000 €. Le stesse organizzazioni sindacali hanno richiesto l'immediata istituzione di un tavolo di crisi dopo che il 15 novembre la STARK ha comunicato l'intenzione di cessare l'attività dello stabilimento volpianese che già si è vista privare delle proprie consegne che vengono dirottate verso gli altri stabilimenti del gruppo (8 in tutto il mondo tra Italia, Brasile, Cina e Germania).

Il 24 novembre, gli operai e i loro delegati sindacali in assemblea permanente all'interno dello stabilimento I.S.A.P, hanno avuto modo di discutere del loro futuro con le alte sfere aziendali in un'aula nel Municipio di Volpiano. Diverse ore di discussione che però hanno lasciato tutti con in mano un pugno di mosche; i delegati sindacali infatti, hanno richiesto il ripristino della loro attività per tutti e 30 gli operai ed impiegati dello stabilimento. Come risposte, vaghe e poco concrete, hanno ricevuto la comunicazione dell'intenzione di creare una nuova società ed è stata usata la frase “con operai in affitto.
Basiti ed increduli, i delegati sindacali di FIOM e CISL hanno ribadito che non intendono subire ulteriori ricatti e che non possono permettere che in questa nuova società ci sia posto solo per 10 di loro, lasciando così altre 20 famiglie ad un futuro incerto. Se non altro, oltre il danno anche la beffa: nel 2006, in base ai livelli, l'azienda ha assorbito il superminimo imposto dal ccnl.
Detto ciò allarghiamo i nostri orizzonti, andiamo un attimo fino in friuli.
Lo stabilimento STARK di Trivignano conta un centinaio di operai che ad oggi lamentano problemi di gestione nei riguardi dei “gestori” dell'attività.
Anzi, si sentono letteralmente presi “A PESCI IN FACCIA” quando vengono a scoprire che i loro colleghi piemontesi rischiano di chiudere i battenti e soprattutto quando scoprono che molti dei loro macchinari, che loro sapevano in fase di revisione, erano invece stati venduti e trasportati nello stabilimento Cinese.

Cominciano dunque a farsi sentire questi signori con le tute blu, tanto che nella serata del 25 novembre viene presentata un'interrogazione al Consiglio Regionale del Piemonte durante un assemblea con operai, delegati ed operatori sindacali e la prima firmataria Eleonora Artesio, consigliere regionale Federazione della Sinistra in Piemonte. Mi rendo conto che le righe si stanno accumulando e che leggere stia diventando un po' noioso con tutte queste cose tecniche.

Se ti va puoi interrompere qua, però io vorrei che tu imparassi a conoscere queste persone.
La cosa che più mi ha fatto effetto la prima volta che ci siamo incontrati è stato questo signore sorridente con dei grandi baffi ingrigiti del tempo che si è presentato a noi per primo...
Con il passare dei giorni mi accorgo che che questi giovanotti, tanto più giovani non sono.
Sono padri di famiglia, operai vecchio stampo che oramai hanno la tuta blu addosso come una seconda pelle e a cui la pesantezza delle scarpe anti-infortunistiche è diventata la comodità delle pantofole di casa.
Vado profondamente orgoglioso di conoscere questi trenta individui che racchiudono tra loro l'anima di una nazione che piano piano sta andando verso un tracollo che è inevitabile. Loro, che tra un vaffanculo ed un altro, nonostante tutto, ancora hanno il coraggio di sorridere e nulla di più mi fa sentire al caldo che trovarli a discutere in queste sere fredde, quando a stare per strada ti si congela perfino l'anima, tutti insieme davanti ad un fuoco.

Questo fuoco che non si deve spegnere perchè deve rappresentare la speranza e la luce per un futuro che loro, a differenza di tanti giovani, vedono ancora possibile.
Non mi dilungo oltre se non per condividere ancora una frase che personalmente trovo di grande ispirazione.

"Sogna e sarai libero nello spirito, lotta e sarai libero nella vita" Ernesto “El Chè” Guevara
Tommy (PRC Settimo Torinese)

mercoledì 23 novembre 2011

Giorgio Cremaschi: Ripartiamo dal «no» a Monti

Questo non è un governo tecnico ma uno dei più politici e ideologici tra i governi che abbiamo mai avuto. È il governo che più nettamente sposa l'ideologia neoliberale. Perché allora dovremmo baciare il rospo, come sostiene Revelli?

Mi dispiace tanto, ma questa volta non sono proprio d'accordo con il mio amico Marco Revelli. Io non bacio il rospo e mi preparo a fare tutto quel che mi è possibile per mandarlo via. Confesso che non sono sceso in piazza con la bandiera tricolore per festeggiare la caduta di Berlusconi. Ho passato questi ultimi 17 anni a combattere Berlusconi, la sua cultura, le sue prepotenze. Prima ho fatto lo stesso con il suo maestro Craxi. Eppure la sera del 12 novembre non l'ho sentita come una liberazione. I paragoni storici che si stanno facendo mi paiono fuorvianti. Come Revelli non vedo nessun 25 aprile in atto. Non mi risulta che il governo di allora fosse di larghe intese tra Cln e Repubblica sociale. Ma non vedo nemmeno un chiaro 25 luglio, se non per l'annuncio del governo Badoglio: «La guerra continua».
Se proprio si deve ricorrere ai paragoni storici, bisogna tornare all'Europa del 1914. Al suicidio di un continente nel nome della guerra e del nazionalismo, e alla corrispondente dissoluzione di gran parte della sinistra socialdemocratica e dei sindacati. Oggi per fortuna non siamo a quel punto, ma è sicuramente in atto un suicidio e una dissoluzione dell'Europa e della sinistra in essa. La guerra del debito, scatenata in tutto il continente, sta mettendo in crisi democrazia e conquiste sociali. Tutti i governi europei sono soggetti alle stesse scelte e agli stessi indirizzi economici. Poi, benignamente, questa tirannia finanziaria ci concede la facoltà di accettarla. Ma non si può dire di no.

A me tutto è più chiaro da quando Marchionne disse agli operai di Pomigliano che se volevano lavorare, nell'epoca della globalizzazione, dovevano rinunciare a tutti i loro diritti. E aggiunse che potevano solo votare sì al referendum sul suo diktat, perché il no avrebbe comportato la distruzione dell'azienda. Marchionne, fino a poco tempo prima incensato come borghese illuminato, così come oggi Monti, ottenne il consenso pressoché unanime del parlamento italiano.

Il governo Monti è espressione diretta del grande capitale italiano e internazionale, con suoi intellettuali organici di valore. È la prima volta che questo avviene nella storia della nostra repubblica ed è sicuramente un segno della crisi totale della classe politica. In questi venti anni il padronato italiano ha alternato politiche di rottura populista e politiche di concertazione democratica. L'obiettivo era sempre lo stesso: contenere il salario ed estendere flessibilità e precarietà, allargare la sfera del profitto con le privatizzazioni. Quando le condizioni lo permettevano e si sentiva particolarmente forte, il padronato italiano ricorreva a Berlusconi e alla destra. Se la risposta sociale e politica cresceva, allora si tornava alla concertazione. Quest'ultima ammorbidiva le scelte, le rallentava, ma non ne fermava la direzione di fondo.

La novità è che oggi il sistema economico dominante salta qualsiasi mediazione politica, non si fida più non solo di Berlusconi, ma anche dell'opposizione e decide di agire in proprio. Altro che governo tecnico, questo è uno dei più politici e ideologici tra i governi della repubblica. È il governo che più nettamente sposa l'ideologia neoliberale.

La crisi economica mondiale ha travolto la ridicola classe politica italiana. Sarà un puro caso, ma tutti i paesi piigs sono stati posti rapidamente sotto controllo. Se si fossero messi assieme, se avessero fatto una comune politica del debito, come i paesi dell'America Latina, banche tedesche e Fmi sarebbero dovuti venire a patti.

Anche a me fa piacere la sobrietà e lo stile del nuovo governo, contrapposto ai nani e alle ballerine, ai bordelli, alle barzellette che facevano piangere, al degrado culturale e civile che ispirava quello precedente. Tuttavia la mia esperienza sindacale mi ha insegnato che il padrone per bene può farti molto più male del padrone sfacciato e impresentabile. Questo governo ha un mandato chiaro, quello della Bce. È il mandato di quel capitalismo internazionale che pensa di affrontare la sua stessa crisi con riforme neoliberali, come negli ultimi trent'anni. Con la solita ipocrisia dell'equità e del rigore si mettono in discussione ancora una volta le pensioni dei lavoratori, la tutela contro i licenziamenti, i contratti, i diritti punto e basta. Si risponde al referendum sull'acqua con le privatizzazioni e si annuncia quella mostruosità giuridica ed economica del pareggio di bilancio in Costituzione. Si risponde agli studenti in sciopero esaltando la riforma Gelmini. Sì, certo, la sobrietà del governo produrrà dei contentini. Un po' di privilegi di casta politica verranno tagliati, ma solo per giustificare i sacrifici sociali. Si annuncia che non ci sarà massacro sociale. Ma questo è già in atto. Sono la crisi e la recessione che stanno producendo una drammatica selezione sociale. Il governo può anche non volere il massacro, ma se opera con riforme neoliberali lo agevola e lo accresce.

È la ricetta neoliberista che è destinata a fallire. Perché non si riuscirà, per quanti sacrifici si impongano, a far ripartire il meccanismo della globalizzazione. Per questo sarebbe necessario prendere atto della crisi di sistema, cosa che Monti nella sua relazione programmatica si è ben guardato dal fare. E costruire una vera alternativa. Il debito non può essere pagato da un'economia in recessione, pretendere di farlo a tutti i costi significa aggravare la recessione e appesantire il debito. È successo alla Grecia e succederà all'Italia, nonostante la professionalità di Monti. Bisogna partire dall'opposizione al nuovo governo per costruire un'alternativa economica, sociale e politica al programma della Bce e del capitalismo internazionale. Sarà dura, ma si riparte dal no a questo governo.

il manifesto 22.11.2011

venerdì 18 novembre 2011

La perfetta operazione Monti

di Paolo Ferrero

Parte il governo Monti. Nello stile e nei toni diversissimo dal governo Berlusconi. Nei contenuti no. Il programma presentato alle camere è integralmente neoliberista. Fin nelle virgole. E' la prosecuzione, radicalizzata dalle richieste europee, delle politiche già messe in atto da Berlusconi e Sacconi, confermate per intero.

Dalle privatizzazioni alle liberalizzazioni passando per il taglio della spesa pubblica, la manomissione delle pensioni e di cosa rimane del mercato del lavoro, fino alla reintroduzione dell'Ici sulla prima casa. Il tutto ovviamente senza dire una parola sulle rendite finanziarie, sulle cause della speculazione, sulle sciagurate politiche europee, che - al contrario - sono per il governo da applicare sotto dettatura. L'idea che il pareggio di bilancio dello stato italiano non solo debba essere inserito in Costituzione, ma addirittura certificato da una società privata, è la ciliegina sulla torta. Lo stato, per rendersi credibile agli occhi degli speculatori, deve farsi controllare dagli amici degli speculatori! Un programma che aggraverà la crisi e le disparità sociali. Da questo punto di vista il governo Monti è stato una perfetta operazione con cui i poteri forti - italiani ed Europei - sono riusciti ad evitare che la caduta di Berlusconi determinasse anche il minimo spostamento a sinistra dell'asse del paese. Lo hanno fatto con il contributo determinante del Presidente della Repubblica, che si è fatto promotore dell'operazione, e grazie all'ignavia politica del Pd, che non è riuscito nemmeno a imporre il ritorno alle urne. Contro questo governo dobbiamo quindi costruire l'opposizione sociale, culturale e politica. Nella costruzione dell'opposizione dobbiamo però essere consapevoli che questo governo parte avendo dalla sua un pregiudizio positivo. Non solo perché viene al posto del governo Berlusconi, di cui larga parte della popolazione non ne poteva più. Il governo Monti incrocia alcuni elementi di senso comune che si sono venuti formando nel corso degli anni: per esempio, la presentabilità di Monti e dei suoi ministri, vista con sollievo dopo le figuracce rimediate a livello mondiale grazie a Berlusconi. Vi sono però due elementi più di fondo che vanno soppesati bene per non fare errori. In primo luogo la sfiducia verso la politica e il ceto politico; i tecnici come garanzia di maggiore serietà, competenza. Q

uesto elemento peserà nel tempo, specie se il governo Monti prenderà misure sui costi della politica. Non è cosa di poco conto. La maggioranza della popolazione italiana considera i costi della politica il primo insopportabile elemento di ingiustizia e per questo apre a Monti un credito fiduciario. Quando diciamo che occorre caratterizzare la nostra iniziativa politica mettendo al centro le pratiche sociali, le lotte, il mutualismo, la solidarietà concreta, è perché pensiamo che l'unico modo per ricostruire una credibile politica comunista parta dalla condivisione. Non solo propaganda o presenza istituzionale: occorre porre il centro del lavoro politico nel sociale e nella costruzione culturale. In secondo luogo, il convincimento che il quadro dell'economia mondiale ed europea in cui ci muoviamo sia oggettivo, naturale e che quindi è bene che siano dei tecnici a gestirlo. Se la speculazione è un fenomeno naturale - di cui non si riesce bene a capire l'origine - il punto non è perdersi in chiacchiere inutili sul da farsi ma applicare con rigore e sobrietà le ricette proprie della scienza economica: una tecnica, appunto. La forza da cui parte Monti non è quindi data solo dal fatto di essere il sostituto di Berlusconi, ma anche dai limiti profondi che hanno caratterizzato l'antiberlusconismo.

L'aver fatto credere che la cialtroneria e gli interessi personali di Berlusconi fossero all'origine di tutti i guai del paese regala oggi a Monti un pregiudizio positivo del tutto immeritato rispetto ai propositi che lo caratterizzano e agli interessi che difende. Occorre tenere presente questi elementi, in primo luogo per capire perché oggi larga parte della gente che ha lottato per la caduta di Berlusconi guarda a Monti come ad una speranza. E' un sentimento con cui dobbiamo fare i conti, per evitare che la nostra proposta di opposizione sia incomprensibile a vasti strati popolari. Occorre spiegare che la politica di Monti verrà usata dalla destra per riguadagnare consenso e che le elezioni anticipate erano l'unica strada efficace per porre fine all'era berlusconiana. Inoltre, per costruire una opposizione efficace al governo Monti, non basterà agire sulle contraddizioni che si determineranno a causa delle sue politiche economiche e sociali.

Senza la messa in discussione - a livello di massa - del fatto che non vi è nulla di naturale e di oggettivo nelle politiche neoliberiste, la delusione per le politiche di Monti non determinerà protagonismo politico ma ulteriore delusione. In altre parole, dobbiamo operare consapevolmente per trasformare l'antiberlusconismo in antiliberismo come condizione per costruire opposizione di massa e rafforzare la sinistra di alternativa.

Fonte:Liberazione

giovedì 17 novembre 2011

Fassino e Sel privatizzano l'acqua

Polemica sulla vendita del 40%, con voto favorevole di Sel, della Finanziaria Comunale che si chiamerebbe “Beni Comuni Torino”; ma la cui gestione avverrebbe tramite le fondazioni bancarie e l’azionariato diffuso
di Checchino Antonini

Ennesima polemica tra il partito di Vendola e i referendari. Stavolta succede a Torino dove Sel, nella battaglia politica sulla “maxy holding” ha deciso di votare a favore della vendita del 40% di azioni Amiat, Trm e Gtt. E il comitato locale per l’acqua bene comune ha bocciato a sua volta il documento e gli emendamenti di Sel - alla cui redazione ha partecipato anche uno dei giuristi estensori dei quesiti referendari - perché sono «un insieme di affermazioni alternative e di concrete concessioni ai poteri forti e al mercato.

La Finanziaria Comunale si chiamerebbe “Beni Comuni Torino”; ma la gestione partecipativa avverrebbe tramite le fondazioni bancarie e l’azionariato diffuso - «con il paradossale risultato di far comprare ai cittadini ciò che è già di loro proprietà». Una proposta esplicitamente rifiutata dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua nell’assemblea di luglio, quella che ha indetto la manifestazione del prossimo 26 novembre a cui il partito del governatore delle Puglie aderisce. La contropartita che Sel domanda a Fassino è la trasformazione di Smat in azienda di diritto pubblico come da anni chiede il movimento. Una scelta che avrebbe consentito di risparmiare 27 milioni di Ires che sarebbero restati all’azienda e alla città. Ma, per i referendari, a sinistra esistono «gravi ritardi culturali (non riuscire ad emanciparsi dall’ideologia dominante negli ultimi trent’anni) e politici (l’incapacità di cogliere una mutazione lenta ma profonda del senso comune)» che stanno facendo perdere la battaglia contro la privatizzazione delle aziende comunali di servizi. «Purtroppo anche Sel, a Torino come in Puglia, non riesce a sottrarsi a questa deriva.

Questi motivi ci fanno pensare a una intrinseca debolezza politica di chi punta a un’ improbabile “riduzione del danno”.
Resta il fatto che i casi Torino e Puglia sono troppo rilevanti perchè il Forum non chieda a Sel una riaffermazione chiara ed esplicita delle posizioni pubblicamente assunte di aperto contrasto alla privatizzazione dei servizi pubblici locali». (per approfondire: www.acquapubblicatorino.org).

Fonte: Il Megafono Quotidiano

Dieci domande al Mario Monti

1) Senatore Monti, il 2 gennaio scorso in un editoriale sul Corriere della Sera lei ha parlato dell'"illusionismo marxista" criticando "la priorità data alla rivendicazione ideale, su basi di istanze etiche, rispetto alla rivendicazione pragmatica", plaudendo alle "due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne" e affermando che "grazie alla loro determinazione, verrà un po' ridotto l'handicap dell'Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili". Pragmaticamente, lei pensa che l'abbandono del massimalismo ideologico in favore di un sano realismo debba applicarsi anche a chi teorizza l'autoregolazione del mercato, l'assenza di regole e di stato come motore dello sviluppo, i sostegni statali alle banche come puntelli dell'economia e altre teorie economiche neoliberiste che non hanno finora trovato riscontro nella realta' dei fatti?

2) Sempre per le affermazioni di cui al punto 1, non crede che le sue dichiarazioni di obsolescenza dello statuto dei lavoratori e del sistema di diritti precedente agli accordi FIAT di Pomigliano sia una visione squisitamente politica e a suo modo "schierata", ben lontana dall'immagine di "tecnico super partes" che le e' stata attribuita dagli organi di informazione?

3) Senatore Monti, a quanto risulta lei continua a ricoprire il ruolo di membro del "Research Advisory Council" del "Goldman Sachs Global Market Institute". Proprio la Goldman Sachs, secondo i dati diffusi da Milano Finanza, avrebbe innescato "l'ondata di vendite di Btp italiani, poi seguita dagli hedge fund e dalle altre banche d'oltreoceano". Non pensa che i rapporti pregressi con questa banca d'affari, descritta dalla stampa specializzata come protagonista delle speculazioni sui titoli di stato italiani, possano legittimare le ipotesi di un conflitto di interessi tra il suo ruolo di consulente al servizio di una banca privata e il ruolo di garante della tenuta economica nazionale che un Presidente del consiglio e' chiamato a ricoprire nell'interesse di tutti i cittadini?

4) Senatore Monti, la Costituzione Italiana, al secondo comma dell'articolo 59, prevede che "il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario". E' noto a tutti il suo ricco curriculum nei settori dell'economia, della finanza e della politica europea. Non sono noti tuttavia i suoi successi in campo sociale, artistico e letterario, e la sua attivita' scientifica sembra limitata allo sviluppo del modello di Klein-Monti, che secondo quanto riportato da Wikipedia "descrive il comportamento di una banca in regime di monopolio, risultato degli studi paralleli di Monti e del premio Nobel Lawrence Klein". Lei crede che questi studi, comparabili a molti altri lavori realizzati da ricercatori ed economisti italiani, siano stati gli "altissimi meriti nel campo scientifico" che le hanno valso l'ingresso nel Senato della Repubblica? Oppure le cause fondanti della sua nomina sono legate a circostanze diverse dai suoi meriti scientifici, e alla necessita' di imboccare una "scorciatoia" forzando l'istituto costituzionale dei senatori a vita per mettere al governo in tempi rapidi e senza passare dalla "formalita'" delle elezioni una persona percepita come affidabile dagli operatori dei mercati finanziari? In questa seconda ipotesi, quali sono secondo lei le condizioni che possono legittimare agli occhi di una opinione pubblica sempre piu' distante dalla classe politica un governo guidato da un senatore di fresca nomina che non ha mai ricevuto neppure un voto dai cittadini italiani?

5) Senatore Monti, il 26 settembre scorso davanti alle telecamere de "La7", lei ha dichiarato che "stiamo assistendo, e non e' un paradosso, al grande successo dell'euro, e la manifestazione piu' concreta del grande successo dell'Euro e' la Grecia". Alla luce dei successivi sviluppi della situazione politica ed economica in Grecia, delle conseguenti tensioni sociali e della recente crisi di governo, lei conferma l'opinione espressa in quella circostanza oppure ci sono delle nuove considerazioni da fare per valutare le conseguenze della perdita di sovranita' monetaria dei paesi dell'area euro in tutti i loro aspetti?

6) Senatore Monti, lei e' stato il primo presidente del Bruegel, un prestigioso "think tank" economico basato a Bruxelles, oltre ad essere membro della "Commissione Trilaterale" fondata dal magnate David Rockefeller. Cosa risponde ai critici che in virtu' della sua appartenenza a questi gruppi vedono in lei un "alfiere del neoliberismo", temendo che anche in Italia la BCE e il Fondo Monetario Internazionale si appoggino a lei per introdurre politiche spinte di deregulation fatte di privatizzazioni dei servizi pubblici, smantellamento dello stato sociale, compressione dei diritti in nome della competitivita', aumento delle disuguaglianze tra classi sociali, allargamento della forbice tra ricchi e poveri (l'ISTAT segnala gia' un 10% di italiani sotto la soglia di poverta' relativa), e altre iniziative redditizie per i mercati ma dalle conseguenze potenzialmente devastanti per i cittadini, che con il nome di "aggiustamenti strutturali" hanno gia' danneggiato le economie di molti paesi dell'Africa e dell'America Latina?

7) Senatore Monti, in merito alla sua esperienza come Commissario europeo per la Concorrenza, molti commentatori le riconoscono il merito di aver fatto applicare le regole europee della concorrenza perfino alla Microsoft, una delle piu' grandi e ricche aziende del mondo, capace di mettere in difficolta' perfino le piu' autorevoli istituzioni antitrust statunitensi. Le chiedo quindi quali provvedimenti ritiene opportuno adottare relativamente all'abuso di posizione dominante nel settore televisivo dell'azienda Mediaset, aggravato da ripetute e indebite ingerenze nel servizio pubblico televisivo di esponenti politici riconducibili a Mediaset (a cominciare dallo stesso Presidente del Consiglio uscente). Tali ingerenze sono ampiamente documentate con atti giudiziari e intercettazioni telefoniche che dimostrano al di la' di ogni ragionevole dubbio l'esistenza di una strategia che accomunava esponenti Rai e parlamentari dell'uscente maggioranza nell'obiettivo di depotenziare il servizio pubblico televisivo a vantaggio dei network commerciali.

8) Senatore Monti, lei e' membro della "Commissione Permanente" del gruppo Bilderberg, un club privato riservato a personalita' autorevoli, a cui le cronache attribuiscono il potere di condizionare le politiche degli stati sovrani con riunioni a porte chiuse e vietate ai giornalisti. In qualita' di privato cittadino, fino a ieri lei poteva partecipare a qualsiasi riunione privata senza essere tenuto a comunicare a chicchessia informazioni in merito alle sue attivita'. Tuttavia, in qualita' di senatore della Repubblica, le chiedo se attualmente lei non ritenga incompatibile con la trasparenza richiesta ad un capo di Governo (e in generale a tutti i rappresentanti delle istituzioni) la segretezza imposta ai partecipanti delle riunioni Bilderberg, e se in virtu' di questa incompatibilita' lei intende semplicemente cessare le sue partecipazioni a queste riunioni oppure comunicarne i contenuti ai cittadini italiani.

9) Senatore Monti, le cronache la segnalano anche come "advisor" della Coca-Cola company, un marchio globale noto in tutto il mondo. In Italia, tuttavia, abbiamo nel viterbese aziende che producono ottimo chinotto dal 1949, e pertanto vorrei chiederle quali sono le misure che intende adottare per tutelare i prodotti italiani dalla globalizzazione dei mercati, per tutelare il lavoro italiano dalla delocalizzazione delle imprese, per tutelare i lavoratori italiani dalla concorrenza sleale di paesi ed economie dove il costo del lavoro risulta piu' basso che altrove per l'indebolimento dei diritti fondamentali nel lavoro o per la mancata applicazione delle regole stabilite nelle Convenzioni dell'International Labour Organization (ILO).

10) Senatore Monti, a quanto risulta lei e' stato allievo del Premio Nobel per l'economia James Tobin, sostenitore di una tassa nota come "Tobin Tax" che ha l'obiettivo di disincentivare le manovre finanziarie puramente speculative con l'applicazione di una leva fiscale, permettendo di deviare nelle casse degli stati sovrani, e quindi ai cittadini, parte degli enormi profitti del settore finanziario. Lei e' stato piu' volte indicato come un tecnico in grado di mettere freno alle speculazioni economiche per anteporre l'interesse sociale collettivo all'interesse economico privato, e quindi le chiedo se nel suo programma di governo e' compresa l'introduzione di una tassazione simile a quella proposta dal suo ex professore James Tobin, e in caso di risposta negativa quali sono le misure che intende adottare per disincentivare le operazioni speculative sui titoli di stato italiani. Nel ringraziarla in anticipo per la sua risposta a questi interrogativi, le porgo i miei piu' cordiali saluti.

Fonte: Liberazione

domenica 13 novembre 2011

E’ il governo Napolitano-Monti-Goldman Sachs

di Giulietto Chiesa –
Monti arriva come commissario al quadrato. I suoi vice saranno gl’ispettori del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Centrale Europea. Come in Grecia. Inizia un’altra repubblica: la terza? Che annuncia di voler cancellare la sovranità nazionale dell’Italia, la Costituzione Repubblicana, ogni forma di reale espressione della volontà popolare (avete visto gli strilli dei “mercati” contro l’ipotesi del referedum greco?).


Vincendo la nausea affacciamoci sul dopo Berlusconi.
Il Presidente della Repubblica ha costruito la via d’uscita di Berlusconi facendo mosse assai dubbie dal punto di vista della legalità costituzionale, che avrebbe dovuto difendere strenuamente. Era il suo compito, che non ha saputo e voluto attuare mentre firmava tutto ciò che arrivava da Palazzo Chigi. E che oggi palesemente ignora.
Ne viene fuori un governo della casta, che verrà definito di “salvezza nazionale”, ovvero “tecnico”. False la prima e la seconda definizione. Perché, primo, non salverà il paese ma obbedirà al diktat della finanza, colpendo la popolazione; secondo, sarà il più politico dei governi del secondo dopoguerra: perché sancisce l’assoggettamento del nostro paese a un “governo” straniero e ostile (e non mi si venga a dire che sudditi lo eravamo già, perché questa eterodirezione è l’inizio di un cambio d’epoca orwelliano).
La prova? Tutte le componenti della casta (che entrerà a frotte nel Governo Napolitano-Monti-Goldman Sachs) parlano della necessità di attuare “misure impopolari”. Cioè antipopolari. Ma guarda che democratici!
Molti si illudono che Monti voglia fare qualche cosa di buono. Ma lui non è qui per questo. Neanche per fare una decente legge elettorale. Lui viene qui per “rieducare” gli italiani alla religione del Debito. Lui arriva per eseguire gli ordini della Banca Centrale Europea, i 39 punti, la lettera di Draghi-Trichet. Un maoista dei nostri tempi: “educare il popolo”. L’ha perfino detto, con riferimento alla Grecia. Adesso lo farà con noi, se gli riesce.
Che fare? Occorre mobilitare la più vasta opposizione sociale e prepararsi a costruire una nuova opposizione politica. Respingere l’”ordine di servizio” preparato dal Quirinale su indicazione dei grandi centri finanziari dell’Occidente.
Occorrerebbe un governo di saggi che, protetti dalla loro statura morale, dal loro prestigio intellettuale, dalle loro conoscenze, siano in grado di sconfiggere le potenti pressioni che si eserciteranno contro di loro, e che varino una nuova legge elettorale, rigorosamente proporzionale, per le elezioni di tutti gli ordini e gradi. Il loro compito sarebbe quello di liquidare la finzione del bipolarismo, che adesso si sgretola sotto i nostri occhi. Qualcuno si chiederà: ci sono questi uomini e queste donne? Io so che ci sono, potrei farne l’elenco. Ma Napolitano non è andato a consultare loro. Ha consultato le mummie e quelli che tirano i fili per farle muovere.
Poi occorrerebbe andare a votare in tempi rapidi. Uso il condizionale perché so bene che questo non avverrà. Ma so anche che il Governo Nmgs difficilmente durerà due anni. Perché la crisi sta precipitando. Annunciano “riforme” per la crescita. Ma tutti gli indicatori dicono che noi andremo in recessione, insieme all’intera Europa. Dunque la crisi arriverà ben presto, o la faranno precipitare “loro”, i “proprietari universali” (e per le grandi masse non farà differenza alcuna, perché in entrambe le varianti a pagare saranno loro).
Secondo: il debito, che ora viene usato come una spada sul capo degli italiani, non può e non deve essere “onorato” con manovre che ridurranno drasticamente non solo il tenore di vita di larghissime masse popolari, ma annulleranno i loro diritti fondamentali, sanciti dalla Costituzione Italiana. Il debito è una truffa ai danni dei molti, a vantaggio dei pochissimi. Il debito è iniquo e illegale. Lo paghino coloro che ne sono stati i responsabili.
Noi ci attestiamo sui nostri diritti costituzionali. A essi non abbiamo rinunciato e non intendiamo rinunciare. La Costituzione ci dà il diritto e il dovere di difenderci contro ogni violazione delle sue norme.
La sovranità che abbiamo delegato a questa Europa non è stata usata nei nostri interessi, e in armonia con i nostri principi costituzionali. Abbiamo dunque il diritto di chiederne la restituzione. Almeno fino a che questa Europa cessi di essere lo scranno dei banchieri e cominci a corrispondere alle nostre aspettative.
Si dia dunque modo al popolo di esprimersi in tempi brevi sul tema del debito: con un referendum. L’Italia può e deve farlo, anche se alla Grecia è stato impedito. Compito di un presidente della Repubblica avrebbe dovuto essere, tra gli altri, quello di sottrarre il paese al ricatto dei potenti, siano essi interni o esterni. Nel nome della Costituzione. Se non lo fa lui, lo faremo noi.
Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/11/12/arriva-governo-napolitano-monti-goldman-sachs/170345/

venerdì 11 novembre 2011

Torino, via alle liberalizzazioni della giunta Fassino

Nel novembre del duemiladieci circa mille e cinquecento torinesi firmarono un appello all'allora sindaco di Torino Sergio Chiamparino affinché non privatizzasse il Gruppo Trasporto Torinesi, la società appartenente al Comune che gestisce la mobilità locale con un discreto successo.

Molti volti noti misero il proprio nome in calce al lungo documento che rivendicava l'indisponibilità di un bene comune come il trasporto pubblico. Sindacalisti, docenti universitari, ed anche uomini e donne della politica oggi approdati nella giunta Fassino. Che però proprio in questi giorni sta varando non solo la privatizzazione della Gtt ma anche della Trm, la società che ha costruito il nuovo iper inceneritore della città, e l'Amiat, dedita alla raccolta rifiuti. Nelle settimane passate Liberazione aveva anticipato l'intenzione della giunta sabauda, una ammucchiata che va dai moderati ultraliberisti ai compagni di Sel, di vendere parte del patrimonio pubblico per fare cassa. La crisi morde, non ci sono soldi per la spesa corrente, questa la ragione ufficiale un po' di tutti.

Così, senza colpo ferire, sul mercato verrà piazzato il quaranta per cento delle tre municipalizzate.
Una manovra ambigua perché il Comune venderà a se stesso, cioè alla la Fct (Finanziaria Comune di Torino), totalmente pubblica. I soldi di nuovi prestiti contratti da Fct per comprare verranno così girati al Comune. Cosa accadrà dopo non è chiaro ma probabilmente la Fct metterà sul mercato le sue quote. A chi? Le fondazioni bancarie, in primis Crt e San Paolo, i due veri poteri forti della città, sono le favorite.

In mano ai privati potrebbe finire così una quota non di maggioranza, ma che ovviamente influenzerà la gestione di tre servizi essenziali per i cittadini in senso speculativo: chi investe denaro proprio vuole guadagnare e non mantenere basso il prezzo del biglietto del bus per aiutare la fascia debole della città. Il prezzo del biglietto di bus, tram e metro aumenterà probabilmente del cinquanta per cento.

Ma la vera sorpresa consiste nella cifra che entrerà dentro le casse della giunta Fassino: appena duecento milioni di euro. I famosi denari sporchi, maledetti ma immediati. Le tre aziende varrebbero, secondo tre banche diverse, tra i cinquecento ed i settecento milioni di euro. Il solo inceneritore del Gerbido, non ancora ultimato, è costato cinquecento cinquanta milioni di euro. Stesso discorso per le due nuove linee metropolitane appena ultimate. Sono i due gioielli della Torino post olimpica.

La deliberà definitiva verrà approvata lunedì prossimo. E questo è l'oggi. Ma c'è anche un domani. Perché chi quella deliberà la approverà politicamente, chi è interno alla giunta Fassino e non ha alcuna intenzione di abbandonarla, cerca di rattoppare la situazione con manifestazione di protesta ed improbabili incontri con al cittadinanza. In una riunione di indirizzo presentata al Forum italiano dei movimenti per l’acqua, Comitato provinciale Acqua Pubblica Torino, i dirigenti locali di Sel hanno però spiegato quali siano le linee di intervento volte a mitigare l'impatto della privatizzazione: innanzitutto nominali, da Finanziaria Comune di Torino Srl a Beni Comuni Torino Srl. Per quanto riguarda a chi vendere le quote un tempo pubbliche le idee del partito di Vendola sono altrettanto chiare: azionariato diffuso a cittadini ed associazioni, nonché a “lavoratori che potrebbero essere coinvolti nei meccanismi di governance come suggerito da molte esperienze straniere, anche recenti (da ultimo il caso Chrysler-FIAT).” Se non si trova nessun piccolo azionista le fondazioni bancarie legate al territorio, sono preferibili- sempre secondo i dirigenti di Sel locali- al socio privato industriale.

Mariangela Rosolen è una delle promotrici del Comitato Piemontese Acqua Bene Comune commenta: “Siamo sconcertati dall'operazione della giunta Fassino, nonché dalla spregiudicata politica di Sel. Le proposte di questo gruppo consigliare non sono assolutamente condivise dal nostro comitato. Chiediamo, a tutti, il pieno rispetto dell'esito referendario ovvero nessuna privatizzazione di servizi pubblici, nemmeno parziale.”

Nettamente contrario anche Armando Petrini, segretario regionale Prc:Di fronte alla gravità e alla drammaticità della crisi economica, ciò che più colpisce è la pervicacia con la quale alcuni, e fra di essi purtroppo il Sindaco di Torino, perseverano nel riproporre le stesse ricette che ci hanno portato nelle condizioni attuali. Il processo di privatizzazione dei servizi pubblici, riproposto come un mantra negli ultimi vent’anni, è stato precisamente uno dei capo saldi dell’ideologia neoliberista.
Andrebbe fatto piuttosto il contrario, e cioè un piano di ri pubblicizzazione dei servizi. Non è fantascienza, il Comune di Napoli ha appena approvato una delibera in tale senso per ciò che riguarda l’acqua.”

Fonte: Liberazione

giovedì 10 novembre 2011

Sotto commissariamento imperiale euroamericano o liberazione?

L'asse UE-BCE-FMI detta ormai, sfacciatamente, contenuti e tempi della politica economica e sociale italiana. La NATO fa altrettanto con la politica estera italiana. Ambiti d'intervento diversi di una stessa regìa politica anti e sovranazionale. Il principale riferimento e garante degli interessi euroamericani di dominio nel nostro paese è, in modo particolare in questa fase, Napolitano. Nominalmente presidente della Repubblica, è consacrato apertamente nelle vesti di garante dalla grancassa massmedia ascara ed internazionale dei poteri sovranazionali che contano. Passaggio di tappa, come in Grecia, è la costituzione di un governo sedicentemente 'tecnico', ma fattivamente –come sempre per ogni governo– politico.

Come in Grecia Lucas Papademos (ex vice presidente della BCE) si appresta ad assumere la guida del governo, così in Italia è un uomo delle oligarchie finanziarie sovranazionali, Mario Monti, che viene pompato –e non da adesso– per un esecutivo più prono e servizievole di quanto lo sia stato quello Berlusconi. Incerta, in Italia, è solo la tempistica di questa operazione. Subito o dopo formali elezioni?
La sostanza non cambierà. I principali e solo iniziali provvedimenti, preannunciati, da lacrimogeni e sangue, già fanno impallidire quelli altrettanto liberisti, anti-nazionali ed anti-sociali, dell'esecutivo uscente. Sull'onda dell'emergenza finanziaria innescata dalla tenaglia debito (indotto)-speculazione, frutto delle dinamiche di funzionamento dell'euro e delle politiche incorporate imposte dall'Unione Europea, si va verso governi che sempre più apertamente obbediscono a direttive sovranazionali e mercatiste, con sedi effettive di riferimento e consulenza sparse tra Bruxelles, Francoforte, Londra, con cabina decisionale e di regìa d'ultima istanza a New York e a Washington.

Sovranità, indipendenza e liberazione nazionale sono già all'ordine del giorno. Da molto tempo di fatto, in maniera evidentissima sul piano politico generale in questi ultimi mesi, settimane. Non si uscirà da questa situazione di dipendenza e servitù, né oggi né mai, senza aver sciolto quei nodi, senza aver riconquistato quei beni comuni –fondamentali e fondanti di ogni società– che, pressoché completamente, stiamo finendo per perdere.
Chi intende cambiare lo stato di cose esistente (in termini anti-capitalistici ed anti-imperialistici, per basilari rivendicazioni di libertà, di giustizia, di felicità sociale, di una vita degna di essere vissuta) e nell'agire politico/sociale vi prescinderà, si auto-confinerà sui binari morti dell'incomprensione della realtà delle cose, della non credibilità e sensatezza delle sue tesi, dell'impotenza politica. Allo stesso tempo è bene preparasi a contrastare chi, senza averne credibilità (storica e/o politica), si appresta a cavalcare opportunisticamente, strumentalmente, queste idee-forza.
Patria, indipendenza e socialismo. Fuori i fascismi dalla Storia. Alla lotta! — 

Fonte: Rivista Indipendenza

mercoledì 9 novembre 2011

No a Berlusconi, no alla BCE, no ai 39 diktat

Il forte si mesce col vinto nemico. Col novo signore rimane l’antico. Dividono i servi, dividon gli armenti.

Così Alessandro Manzoni scriveva nell’Adelchi, per ricordare agli italiani che non potevano affidarsi a un cambiamento di padrone per avere la libertà.

Non illudiamoci, non è stata l’opposizione, non è stato il movimento di lotta, non è stato neppure il referendum e la protesta di milioni di persone a far cadere Berlusconi. Sono l’Unione Europea delle banche e della finanza, il capitalismo internazionale che hanno sfiduciato il Presidente del Consiglio. Il capitalismo internazionale non sopporta più Berlusconi, lo considera inefficiente, inefficace, controproducente e lo vuole mandare a casa. Ma non certo per fare un favore a noi. Noi non abbiamo mai sopportato Berlusconi, da un tempo infinito abbiamo sperato di mandarlo a casa, anche quando tutte e tutti coloro che oggi lo abbandonano lo riverivano come il massimo della novità e dell’efficienza.

Noi però oggi corriamo il rischio di pagare tutta la bolletta, tutto il conto che Berlusconi ci lascia. I 39 punti contenuti nella nuova lettera dell’Unione Europea al governo italiano sono altrettanti diktat che colpiscono al cuore i nostri diritti, le nostre condizioni sociali, la nostra democrazia.
Per questo dobbiamo già combattere i nuovi padroni, la Bce, il Fondo monetario internazionale, Wall Street. Essi vogliono farci pagare tutti i costi della loro crisi. Prepariamoci a lottare più di prima contro la dittatura della finanza e delle banche in Italia e in Europa.

Si preparano giorni difficili per il nostro paese commissariato. La riconquista dei diritti e della libertà richiede sia il rovesciamento di Berlusconi, sia il rifiuto dei 39 punti dell’Unione Europea e di tutti i vincoli che, così come in Grecia, distruggono anche la Costituzione e la civiltà nel nostro paese.

Giorgio Cremaschi

(9 novembre 2011)

Fonte: Micromega

Il governo se ne andrà e per questo stasera brindiamo


«Il governo se ne andrà e per questo stasera brindiamo», esordisce Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione comunista mentre i tg di prima serata danno conto di quanto avvenuto al Colle - l’ostinazione di Berlusconi ha demolito la credibilità non solo del governo ma più complessivamente della politica, della stessa democrazia.

Sembra di assistere ad una Weimar al rallentatore, c’è una crisi palese del regime, della seconda repubblica.

D: C’è anche un recentissimo sondaggio che conforta questa osservazione: due terzi degli intervistati ritiene che, per uscire dalla crisi economica la prima misura sia abbattere i costi della politica, solo un terzo crede che sia più utile una patrimoniale
.
PF: L’antipolitica – intesa come sfiducia radicale nella politica - ha ormai una dimensione di massa. In realtà noi abbiamo dinnanzi due ipotesi, che si alimentano a vicenda, di uscita a destra dalla crisi del governo e della democrazia. Da un lato il governo tecnico che sarebbe un governo tecnocratico, cioè il governo della Bce e non del popolo italiano. Pensa alla Grecia che non ha nemmeno potuto decidere di fare un referendum sulle sue politiche. Dall’altra l’ipotesi populista che ancora non ha dato il peggio di sé. Pensa se Berlusconi potesse uscire da questa situazione gridando al ribaltone. E pensa alla Lega che, finora, è rimasta imbrigliata nel governo e ha dovuto stare al gioco. Se l’esito dovesse essere il governo tecnico la Lega già ha detto che ne resterà fuori, possiamo immaginarci che tipo di campagna di nazionalismo secessionista e razzista potrebbe fare. Esiste il rischio di un’uscita ancora più a destra dalla crisi.

D: E’ addirittura un passo indietro rispetto al quadro angusto dato dal bipolarismo?

PF: Infatti, la dialettica rischia di essere tra tecnocrati e populismo di destra. Per questo siamo contrarissimi ad un governo tecnico e proponiamo la via maestra delle elezioni. Di fronte ad una crisi politica occorre ridare la parola al popolo.L’obiezione più gettonata è che questo sistema elettorale è improponibile.Nessuna controindicazione, compreso il voto con il Porcellum è maggiore della controindicazione della ricostruzione di un governo di destra o del governo tecnocratico guidato da Monti o similari con il corollario di una opposizione razzista allo stesso. Occorre andare a votare il prima possibile per uscire dalla palude.
D: Viene molto utilizzata la suggestione della transizione di vent’anni fa tra prima e seconda repubblica. Si fa perfino il nome di Amato.

PF: Beh, quella transizione è stata un disastro di cui ancora paghiamo le conseguenze e a cui Rifondazione comunista si è opposta con tutte le sue forze. Oggi sarebbe anche peggio perché la crisi macina molto di più e perché la crisi delle istituzioni è assai maggiore.

D: E come affrontare le urne in queste condizioni?
PF: Noi proponiamo un fronte democratico per battere le destre che veda l’alleanza della sinistra con il centrosinistra, senza i centristi. Pur non vedendo le condizioni per governare insieme al Pd, siamo interessati alla maggiore discontinuità possibile sia sul piano democratico che sociale. Nella realtà e nella percezione della nostra gente c’è la necessità di cacciare Berlusconi. Visto che il sistema elettorale è maggioritario noi dobbiamo stare in sintonia con questa necessità e questo sentimento e contribuire alla cacciata di Berlusconi. Parallelamente poniamo al centrosinistra il tema della democrazia e della partecipazione: per questo proponiamo le primarie di programma, per far decidere al popolo dell’opposizione non solo chi dovrà governare ma per fare cosa. Al rischio di uscita a destra dalla crisi – nelle sue varianti tecnocratiche e populiste – noi dobbiamo proporre una uscita da sinistra. Nel popolo del centrosinistra non la pensano tutti come Renzi: dobbiamo costruire una sponda politica per quei contenuti e attivare delle forme di partecipazione diffusa.

D: Ma così come si declina un’altra necessità, quella dell’autonomia politica della sinistra dal quadro dato?
PF: Allargando la sfera della democrazia. Ho detto delle primarie di programma. Dobbiamo costruire un referendum sui vincoli europei, anche in forma autogestita. Così come stiamo predisponendo con altre forze una campagna referendaria su cui raccogliere le firme a partire da gennaio. Esiste già un fronte ampio contro l’articolo 8. Stiamo discutendo anche sulla legge 30 e su quesiti che consentano di ripristinare il proporzionale. Se raccogliamo le firme a gennaio si voterebbe qui referendum un anno dopo le elezioni e questo sarebbe un modo assai efficace per intervenire dentro la politica da parte della società.

D: Quindi con le elezioni determinare il quadro politico migliore possibile e poi nella società cambiare i rapporti di forza?

PF: E’ chiaro che cacciare Berlusconi non risolverà il problema dell’alternativa, dunque le primarie, i referendum, l’azione dei movimenti determinerebbero la possibilità di interagire col quadro politico con una forza esterna. La dialettica parlamentare non può esaurire la ricerca della costruzione dell’alternativa, perciò dobbiamo costruire la forza nella società. Ma c’è anche una ragione di fondo nella ricerca di forme di democrazia diretta: dentro questa crisi economica c’è la crisi della democrazia rappresentativa. Nel neoliberismo, attraverso le politiche fatte dagli stati c’è stato un passaggio di poteri dagli stati alla finanza, dai parlamenti ai governi e da questi al direttorio Bce/Germania.

D: Anche da questo si percepisce come gli spazi per la politica siano strettissimi.

PF: La politica, applicando politiche neoliberiste, ha scelto di non contare lasciando fare ai potentati economici. Da un lato c’è una crisi fortissima di legittimità, dall’altro, però, c’è una fortissima domanda di democrazia spesso deviata dai mass media in termini “anti-casta”. Noi invece dobbiamo saper riconoscere la domanda sociale come domanda di potere: in Molise, alle recenti regionali ha votato meno gente che ai referendum di giugno che hanno incarnato questa domanda sociale di partecipazione. Della stessa cosa ci parlano le esperienze della Val di Susa, della Fiom, del 15 ottobre che, al di là di tutto è stata in Italia la più grande piazza di quel giorno. Ma tutto ciò non ha uno sbocco politico. Che siano su Vendola, o sulla variante più di destra Renzi, le primarie sono una sussunzione di quella voglia di partecipazione dentro un meccanismo di iperdelega al leader carismatico. Dalla delega al partito alla delega al leader. Pensa che solo la Fds e il Pd non hanno il nome del capo sul simbolo elettorale. Le primarie di programma sono utili a individuare dei nodi - no alla guerra e alle spese militari, no alla precarietà, sì ai beni comuni e alle ripubblicizzazioni - da indicare al centrosinistra perché si scelga non solo chi ma che cosa fare.

D: Ma come è possibile ricostruire spazi di democrazia partecipata ed efficace? Esiste il problema di “un nuovo che non nasce”?.

PF: I problemi sono tanti, occorre lavorarci in direzione della socializzazione della democrazia. Oggi i referendum non hanno più la sola valenza di fotografare lo scarto tra paese reale e paese formale. Oggi possono avere una valenza costituente di soggettività. Per questo seguiamo l’esperienza dei movimenti per l’acqua (parteciperemo alla manifestazione nazionale del 26) e stiamo dentro a tutte le sperimentazioni di costruzione della soggettività della società civile con interessi antagonisti alla grande finanza. Ma per questo serve che si trovino forme persistenti di autorganizzazione, di contropotere dal basso. Penso che in tutta Italia si debba agire come si agisce in Val di Susa. E poi la politica va riconnessa al fare. Ecco perché siamo l’unico partito a spalare fango a Genova, l’unico a intervenire nel terremoto, a fare i Gap. Le condizioni per l’alternativa nascono nella densità sociale che si contribuisce a ricostruire.

D: Ma chi potrebbero essere gli interlocutori di questa ricerca?

PF: Coloro che hanno fatto l’opposizione sociale in questi anni. A differenza di altre fasi storiche, l’elemento democratico è costituente. Nella sua crisi, il capitalismo cerca di restringere la partecipazione per restituire, come nell’Ottocento, il potere ai padroni e ai banchieri riducendo il conflitto sociale a problema di ordine pubblico. Noi, al contrario, dobbiamo favorire l’irruzione delle masse nello spazio pubblico. Noi vogliamo aggregare la sinistra di alternativa a partire dalla ricostruzione della soggettività, la sinistra che opera per rompere il senso di impotenza, che “aiuta” - come diceva Vittorio Foa - la gente a governarsi da sé. Per tutto questo la sinistra d’alternativa deve essere in grado di non subire, di non farsi sovradeterminare, dal falso movimento del bipolarismo che ci vorrebbe o marginali o allineati.

martedì 8 novembre 2011

La Rivoluzione d'Ottobre: il futuro dei giovani critici del capitalismo.

La Rivoluzione d'Ottobre è la sintesi del nostro essere comunisti. Nel suo 94° anniversario ne ribadiamo l'attualità.
Dopo la rivoluzione francese del 1789 la nostra rivoluzione ha aperto gli occhi al mondo e terrorizzato quelli del capitalismo sbattendogli in faccia che i comunisti ci sono e sono in grado di vincere. E noi ci sentiamo i "ripetitori" di quella rivoluzione che, a 94 anni di distanza, ne rilanciano il messaggio di uguaglianza e libertà per i lavoratori e di terrore per chi ha fatto dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo lo strumento del proprio benessere.
Non dimentichiamo l'enorme messaggio di pace che la Rivoluzione portava con se, contrapponendosi a quel massacro di proletari, per conto delle potenze europee, che era la I^ guerra mondiale. Questo è il nostro pacifismo. Non utopisticamente non violenti, ma certi che, se violenza dev'esserci, dev'essere violenza di classe. Null'altro è giustificabile e l'abbiamo ribadito anche rispetto alle vicende del 15 ottobre.
"Tutto il potere ai Soviet!" la Rivoluzione impose nel mondo una nuova democrazia: contro la delega in bianco la democrazia sostanziale della partecipazione. Quella che ancora primeggia in stati come Cuba. Quella che noi pratichiamo nel nostro Partito, quella che vogliamo per il nostro Paese.
Il capitalismo in crisi. Noi non vogliamo un capitalismo dal volto umano, noi vogliamo sovvertirlo. Nel movimento mondiale che in questi mesi si scaglia contro questo capitalismo malato noi rilanciamo quotidianamente la nostra peculiarità, quella di lavorare per un sistema socialista! Gettare a mare le leggi del profitto per quelle del benessere collettivo.
Un altro mondo è possibile? Si se è socialista! Cito dalla prima mozione congressuale che in questi giorni stiamo sostenendo "la Rivoluzione d’Ottobre mantiene un valore peculiare: essa è stata uno spartiacque del XX secolo. Per la prima volta nella storia le masse hanno preso in mano il loro destino. La Rivoluzione d’ottobre ha permesso al popolo russo di uscire da una situazione di miseria, servaggio e ignoranza ed ha modificato in profondità gli equilibri del mondo, rompendo il monopolio planetario del mercato capitalistico e influenzando l’intero corso rivoluzionario del ‘900, fino alle liberazioni anticoloniali. Ha costretto le classi dominanti dell’Occidente capitalistico a compromessi significativi con il movimento operaio. Ha contribuito in termini decisivi alla sconfitta del nazifascismo."

 Una Rivoluzione che ha quindi propagato messaggi di resistenza, lotta e liberazione anche oltre se stessa ed oltre l'esperienza sovietica.
Quanto hanno contribuito i compagni dell'"ipercriticità" alla costruzione del "pensiero unico" anticomunista?
Troppo spesso, anche nel nostro partito, si è preferito, in luogo di una ricerca storica rigorosa e di un dibattito trasparente, chiudere i conti col passato.
Per noi rimane primaria la lotta al capitalismo e rendiamo omaggio alle tante esperienze di comunismo che hanno attraversato il mondo ed il novecento a partire dall'esperienza dell'Unione sovietica.
Un bagaglia di esperienze novecentesche che sottoponiamo ad uno studio critico e che vogliamo integrare e rinnovare con le esperienze e le pratiche di lotta della nostra generazione. I Giovani Comunisti giorno per giorno nelle città, nelle piazze e nelle scuole sono motore della lotta e del conflitto, lo facciamo con acronistico spirito di sacrificio e senso del dovere, lo facciamo sentendoci, senza nessuna vergogna, anche noi figli della Rivoluzione d'Ottobre e fratelli di quei giovani pieni d'entusiasmo che 94 anni fa correvano ad arruolarsi nell'Armata Rossa per portare a termine una rivoluzione appena iniziata.
Per questo i miei auguri, per il 94° anniversario, vogliono andare a tutti i giovani compagni e le giovani compagne che, nelle forme più svariate, lavorano con i Giovani Comunisti e il  Partito della Rifondazione Comunista  per un mondo diverso, senza per questo aver mai tentato di picconare la nostra storia.
Auguri per il 94° anniversario della Rivoluzione d'Ottobre a tutti i Giovani e Comunisti.
Francesco D'Agresta